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Mangiamo al Cinema, Cinema e cucina, T. Mauri, magazine n.8

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Mangiamo al Cinema, Cinema e cucina, T. Mauri, magazine n.8

Cinema e cucina, connubio perfetto.

Il cinema fa sognare, proietta in un mondo fantastico e ci risolleva dalla quotidianità. Ovviamente, i temi del cibo e dell’alimentazione, passione atavica di tutti noi e raffinata espressione culturale, attraversano moltissime pellicole. Il cibo è stato, ed è, un grande generatore di narrazioni cinematografiche: ha ispirato storie d’amore, d’amicizia, ha legato tra loro persone di diverse parti del mondo evocando emozioni e ricordi. Sa raccontare molto del personaggio e spesso è un elemento importante per costruire l’atmosfera e il quadro storico della storia.

Tutto ebbe inizio quando due fratelli francesi crearono un “un meccanismo che fermasse la pellicola ad ogni fotogramma, consentendo alla luce di passarvi per un tempo sufficiente a consentire la proiezione dell’immagine su schermo, per poi trascinarla e passare al fotogramma successivo”. Era il 1895 e i fratelli erano i famosi Lumiere, Auguste e Louis, che inventarono, e brevettarono, il “cinematografo”, un’invenzione che si impose a livello internazionale e, da quel momento, diede inizio a tutto ciò che noi oggi consideriamo video.

E già durante la prima proiezioni dei 10 brevi film al Salon Indien du Grand Café al 14 del Boulevard des Capucins a Parigi il 28 dicembre del 1895, data di battesimo del cinema, ce n’era uno dove il cibo era protagonista. Stiamo parlando del “Repas de bébé” (la colazione del bebè) dove Auguste e la moglie Marguerite danno da mangiare al figlio Andrèe di appena un anno, con posate e argenteria, caffè, zollette di zucchero, biscotti e una pappa per bambini.

Quando il cinema sbarca in Italia, sono tanti i film italiani che celebrano la cucina italiana in scene memorabili e leggendarie come le donne di “Roma città aperta”, che assalivano i forni della città, appena liberata dagli alleati americani, per procacciare un po’ di “pane nero” per la famiglia e tutto il parentato, o il bambino povero di “Ladri di biciclette”, che mangia con piacere e lentezza un panino con la mozzarella filante o ancora la spaghettata collettiva dell’ “L’onorevole Angelina” che diventerà icona della famiglia italiana. Uno stereotipo sì, ma anche il tratto distintivo della romanità sorniona e bonaria di Aldo Fabrizi o della comicità napoletana di Totò che nel film “Miseria e nobiltà” dove il cibo e il desiderio di mangiare aleggiano su tutto. Memorabili le scene di Totò che detta la lista della spesa da fare con il ricavato del cappotto portato al banco dei pegni (“mozzarella, la premi con le dita, se esce la goccia la compri, sennò desisti”) e dove balla in piedi sul tavolo mangiando spaghetti a volontà, portandoli alla bocca direttamente con le mani e mettendoli persino nelle tasche del soprabito. 

Roma e Napoli sono le città dove trionfa la cucina popolare, quella della tradizione e delle grandi “magnate”, come nella celebre scena di “Un americano a Roma” in cui Alberto Sordi, in arte Nando, che sogna i pop-corn, le bistecche, il chewingum e parla un inglese maccheronico, per essere come un vero americano deve mangiare come loro. Prepara la tavola autoconvincendosi della sua scelta, sfoderando luoghi comuni sugli yankee onesti, coraggiosi e soprattutto sobri. E, dopo aver messo da parte la cena preparata dalla madre, si prepara un miscuglio di cibi “made in Usa”: pane, marmellata, mostarda con sopra un po’ di latte. Dopo aver masticato il disgustoso intruglio, guardando l’allettante piatto alla sua sinistra, con un grande uso dei tempi comici, Nando sputa quanto mangiato e commenta: “Ammazza che zozzeria” (battuta ripresa successivamente da altri attori come Cristian De Sica e da alcuni conduttori televisivi, Bonolis su tutti). E cede al fumante piatto di spaghetti pronunciando la famosa frase: “Macaroni… m’hai provocato e io te distruggo! I me te magno…” e prendendo il latte: “Questo lo damo al gatto”, lo yogurt “questo lo damo al sorcio” e la tanto citata mostarda “con questo ci ammazziamo la cimice”.  

Dicevamo Napoli che si impone come la città del cibo da strada e dei pranzi casalinghi come si evince nell’ indimenticabile film “Sabato, domenica e lunedì” di Lina Wertmuller, tratto dall’omonima commedia di Eduardo de Filippo, dove la sublimazione del concetto di ragù è metafora del rapporto in bilico tra Rosa (Sofia Loren) e Peppino (Luca De Filippo) sposati da trent’anni. L’irrequietezza della donna, che teme un tradimento, si manifesta prima nella macelleria dove “giunge alle mani” con un’altra donna per una discussione sul perfetto, poi nel pranzo domenicale dove Rosa è offesa dal “tradimento gastronomico” del marito, reo di aver sovrastimato i maccheroni alla siciliana della nuora e Peppino s’ingelosisce del vicino di casa che gradisce oltre misura la cucina di sua moglie. E così mentre tutti sono seduti intorno al tavolo e assaggiano U ‘Rau, piatto simbolo della cucina napoletana che si deve cucinare per giorni, questo diventa un mezzo per rivelare vecchi rancori, scoprire segreti, raccontare verità e riappacificarsi.

Film di un Italia che non esiste quasi più, contaminata dalla globalizzazione e dalle nuove esigenze della cucina e del cinema che cambia e si evolve, ci porta in mondi lontani, talvolta sconosciuti e ci invita ad assaggiare serpente a sorpresa – da cui fuoriescono anguille vive che guizzano sul tavolo riccamente imbandito –  scarafaggi ripieni da succhiare, profumati brodini di occhi che galleggiano sulla superficie e, per dessert, cervello di scimmia semifreddo (“Indiana Jones e il tempio maldetto”).

Al cinema entriamo nelle cucine e nei ristoranti, come in “Big Night” dove i fratelli Pileggi, Primo e Secondo, emigrati in America, aprono un ristorante ma non si trovano d’accordo nella gestione: Primo, lo chef, non vuole scendere a compromessi e pretende di fare una cucina filologicamente fedele a quella della sua regione. Secondo, che lavora in sala, sarebbe più propenso a contaminare piatti e ricette in modo da accontentare il pubblico. Ovviamente le loro idee gastronomiche sono anche riflesso di come vogliono e riescono a integrarsi nella nuova società. Tra le scene più divertenti quella in cui una cliente chiede spaghetti come contorno del risotto e le devono spiegare che la richiesta sia insensata. Inoltre è delusa dal fatto che gli spaghetti siano senza meatball. Perché spaghetti senza polpette? La risposa: “Qualche volta gli spaghetti amano stare soli”. E ancora nel film di animazione “Ratatouille” dove il giovane Alfredo Linguini, assunto come ‘sguattero’ in un famoso ristorante parigino, fa amicizia col topo Remy che ha un olfatto e un gusto sopraffino, che lo farà diventare un abile cuoco – grazie alle manovre del topo sotto il cappello che gli indica quali ingredienti scegliere, come preparali e cucinarli- capace di conquistare il palato del più temuto critico gastronomico di Francia, Anton Ego. Memorabile la scena in cui Anton assaggia il piatto di ratatouille e torna bambino: alla prima forchettata si scioglie all’assaggio del piatto, sì povero ma squisito, preparatogli dal topolino Remy e torna indietro nella memoria alla rassicurante e calda cucina casalinga della mamma, tanto da finire il piatto – banale, scontato, popolare – succhiandosi le dita e complimentandosi con lo chef.

E poi ci sono i film dove i protagonisti sono gli chef – scontrosi, egocentrici, eccentrici, egoisti, solitari e maniacali – come nel celebre “Il sapore del successo”, dove Adam Jones è uno chef stellato che ha buttato a mare la sua carriera a suon di sesso, droga e litigi. Con un grande futuro dietro le spalle, l’ex enfant terrible della gastronomia parigina, decide di rimettersi in gioco aprendo un ristorante a Londra con l’obiettivo della terza stella Michelin o come nel film “Ricette d’amore” dove Martha è la terribile chef del Lido, raffinatissimo ristorante francese di una cittadina tedesca, che vive solo per il lavoro fino a quando non entra in “scena” la nipotina, che, persa la madre, rifiuta il cibo, anche gli irresistibili piatti della zia; ma sarà l’arrivo di Mario, estroso chef italiano, a far tornare l’appetito alla piccola – con un piatto di spaghetti! – e a risvegliare il gusto per la vita della zia. Infine con “La cuoca del presidente” entriamo in un mondo parallelo dove la disciplina della cucina unisce le classi sociali: la storia si ispira liberamente alla vita di Danièle Delpeuch, la cuoca che nel 1986 fu assoldata all’Eliseo per cucinare per François Mitterrand, che attraverso le regole, la disciplina e la cura per il cibo si avvicina al Presidente della Repubblica francese.