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Vendemmia con le scarpe nuove (di A. Massara)

Questa primavera ho comprato un nuovo paio di scarponi da campagna. Quelli vecchi li ho lasciati per quando lavoro col decespugliatore: si sporcano davvero tanto, si dipingono addirittura con il verde della clorofilla. Non ci posso certo andare in giro, con quelle vecchie. A parte il fatto che sono bucate.

E’ successo così che sono arrivato in vigna con le scarpe nuove, a fare fotografie.

Le scarpe nuove, si sa, fanno male. Anche quelle meglio fatte. Anche le mie hanno cercato di fregarmi, ma se sei accorto, ed hai esperienza, puoi usare i legacci per fargli fare quello che vuoi tu. E così è molto meglio.

Le mie scarpe nuove hanno i legacci arancione. Brillano nella polvere come clown nella pista da circo. Potevo sceglierne un paio con i legacci marroni, ma infine quelle erano le migliori, ho pensato che andare in giro per la campagna con i legacci arancioni non fosse tanto grave. E poi, per quanto tempo sarebbero rimasti arancioni? Un paio di volte e il fango li avrebbe dipinti in modo permanente.

Quando sono arrivato nel vigneto, armato dalle mie macchine fotografiche e ho salutato i vendemmiatori chiedendogli il permesso di scattare delle foto, saranno passati dieci minuti e sono diventato “quello con le scarpe nuove”. Colpa dei legacci arancione. E’ ovvio.

Le loro erano vissute: tante vendemmie, tanti chilometri, su e giù sulla polvere e il fango. Dal colore ormai identico a quello della terra, i legacci sfibrati, le tomaie curve, i piedi dentro nodosi come le mani di vecchi vendemmiatori. E io, con la barba bianca, il fotografo con le scarpe nuove. Come dire: sono vecchio, ma ricomincio sempre da tre.

Avevo sbagliato tutto?

Che importa, mi sono detto, sono qui a fotografare.

Gli uomini tagliavano l’uva, scherzando fra di loro, la gettavano nelle cassette e salivano lungo il crinale. Si muovevano a tratti, mettendosi in posizioni che ricordavano più l’allevatore che munge le mucche che un contadino che raccoglie. Prendevano l’uva come fosse una mammella ma invece di spremerla, tagliavano. Scostavano le foglie, tagliavano qualche tralcio, cercavano l’uva nascosta nell’ombra.

E’ quello che faccio anch’io: cerco nell’ombra brani di realtà che descrivano il mondo per fotografarli, fissandoli nel tempo. Ogni vite ha tre grappoli, a volte quattro, qualche volta cinque. Io scatto due o tre volte se guardo con attenzione. La foto diventa immagine mentre l’uva diventa vino: non è uno sviluppo, è una metamorfosi. Nulla nel vino ricorda la forma dell’uva, così come l’immagine fotografica è solo un istante dell’incessante evolversi dell’universo, la sua struttura è solo l’umana semplificazione narrativa dell’inconcepibile complessità della realtà. Concreta l’una, concreta l’altra ma solo bruchi per una matomorfosi completa, totale.

D’improvviso, guardando la vigna, ho visto la storia: la vendemmia sembra la morte dell’uva in cassetta. Ma è un’illusione temporale. Sembra sia distrutta dalla vendemmia, atto finale di un’evoluzione durata un anno, con tutte le similitudini che vi possono venire in mente: vite come madre e uva come figlio, filare come allevamento, tralci come vite vissute eccetera eccetera. Ma in verità l’uva è come il bruco che risorge come farfalla in bottiglia. Molto più di un’evoluzione, una metamorfosi che si conserva sotto vetro, col tappo di sughero.

Un tappo nuovo.

Come le mie scarpe.

Perchè la vera metamorfosi è solo della vita, non esiste metamorfosi in natura senza che ci sia la vita. Solo quella si trasforma per ricominciare da tre.

Questa vendemmia ho imparato una cosa: se vuoi digradare lentamente come si dice dell’universo nell’entropia, mettiti le scarpe vecchie. Ma se vuoi vivere davvero, allora devi trasformarti, accettare la metamorfosi, ed è meglio che te ne procuri un paio nuove.

Antonio Massara